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18 novembre 1945 – RIVOLTA NEL CARCERE DI ALGHERO: La tragica morte di cinque agenti di custodia


Una tragico episodio che si vuole ricordare per onorare la memoria di questi Servitori dello Stato che persero la vita compiendo il proprio dovere.

Riportiamo qui di seguito la cronaca di quell’orrendo crimine.

Il 18 novembre del 1945 quattro agenti di custodia del carcere sardo persero la vita nel tentativo di evitare l’evasione di sei ergastolani. Un episodio ancora vivo nel dolore ma che rende ancora più forte l’orgoglio di appartenere al Corpo.

Il 18 novembre del 1945 Alghero era una città che aveva conosciuto le atrocità della guerra e, nel suo piccolo, aveva subito dei bombardamenti. Lo scenario era lentamente cambiato: si pensava a quell’epoca alla ricostruzione. Non esisteva la parola turismo e l’appellativo “riviera del corallo” doveva essere ancora coniato.

Il 18 novembre del 1945 Alghero era una città ancora dentro le mura, chiusa nei ricordi e nelle paure, incerta nel crescere, con poche opportunità. Era un borgo gonfio di contadini e di pescatori. Qualche artigiano. Nient’altro.
Fuori le mura, nel colle di San Michele, si intravedeva il bagno penale che con regio decreto era stato istituito nel 1889 e che raccoglieva in quel periodo moltissimi ergastolani: una masnada di delinquenti, di gente considerata rifiuto, di persone indegne, con nessun futuro davanti. Il carcere, per questa città, era stato sempre un corpo estraneo, lontano ed indefinibile ed il fatto che il bagno penale o “lo stabilimento” come veniva apostrofato in termini burocratici raccogliesse “gli ultimi” era vissuto in maniera passiva. Quasi nessuno volesse accorgersene, impegnati come erano, almeno in quel periodo, a fare i conti con il dopoguerra: volontà di ricominciare, di nutrire speranze, di raccogliere nuove opportunità.

Il 18 novembre del 1945 era, tutto sommato, un giorno di un calendario che scorreva lento, nell’attesa di nuovi eventi: una monarchia da rivedere, una storia da ricostruire, una speranza da capire. Pochi, veramente pochi, in quei tempi davano peso al carcere, alla sua struttura, ai detenuti e agli agenti che ci lavoravano.
Il mondo d’altronde era scosso da altri avvenimenti. Terribili, deleteri, che avrebbero segnato un’umanità intera: Il 6 agosto 1945, appena tre mesi prima, lontano, molto lontano da Alghero il presidente americano Truman dava un ordine, un ordine che sarebbe divenuto l’ordine maledetto, l’ordine che separa la realtà dalla fantascienza, l’ordine che diventava oblio, squarcio di una ferita mai più sanabile: il 6 agosto 1945 un aereo americano sganciava su Hiroshima, in Giappone, la prima bomba nucleare della storia.
Un ordine che sconvolse il mondo e le coscienze.

L’Italia era invece scarmigliata dagli eventi. Il 28 aprile 1945 i partigiani catturavano ed uccidevano Benito Mussolini. Un pezzo di storia che si scomponeva, che si portava dietro sofferenze, atrocità, distruzione, ma che portò, in quell’anno, la riscoperta di una pace che sarebbe divenuta finalmente duratura e che avrebbe, in ogni caso, cambiato il corso della storia. Della grande storia.

Il 18 novembre del 1945 era un sabato. Un maledetto sabato. Fatto di pensieri tutto sommato normali che nel carcere si raggomitolavano lenti. Un sabato usuale fatto di pochi schiamazzi, delle solite conte, di turni da ricoprire, di parole inossidate e inossidabili. Non era semplice a quei tempi lavorare come agente di custodia, soprattutto a quei tempi non era una scelta ma una necessità.
Era il pane che mancava, era la paura di non ritrovare nessun sorriso dentro la propria casa, era il terrore di dover chiedere e richiedere, di non sapere che cosa fosse quel futuro nebuloso che si sprigionava davanti e, almeno in quel momento, molto cupo; era uno stipendio da fame, lavoro sottopagato, bistrattato, deriso, martoriato; era lo scarto dello scarto: non carabiniere o finanziere oppure poliziotto: agente di custodia, superiore, secondino, un figlio senza eroi buttato dentro una galera a rimescolare bricioli di storia già ampiamente vivisezionata dagli altri; questo lavoro era, almeno in quel periodo, l’ultimo dei mestieri, il capolinea per tutti gli uomini considerati avanzi, trucioli di storia: fare l’agente di custodia il 18 novembre del 1945 era un triste mestiere.

Erano trascorsi appena tre mesi dal 21 agosto 1945 quando, con un Decreto legislativo voluto dall’allora Guardasigilli Togliatti, il Corpo degli agenti di custodia entrava a far parte delle forze armate, veniva militarmente organizzato e passava alle dipendenze del Ministero di Grazia e Giustizia.
Nelle carceri, in questi pochi mesi, in realtà nulla era cambiato né per gli agenti né per i detenuti.

Giulio Moi non aveva altre alternative: voleva fare il carabiniere del Regno ma era stato scartato. Voleva costruirsi un futuro come finanziere ma non era riuscito a sapere per tempo la scadenza delle domande; finì per accettare questo lavoro e ad Alghero ci arrivò come allievo agente di custodia.

Ettore Scalas questo mestiere invece se lo sentiva dentro. Era felice di essere stato promosso vice Brigadiere. Era, per lui, una scommessa, di quelle scommesse che in quegli anni erano grandi, forti: lui credeva nella Patria e nel valore eroico che la Patria rappresentava: essere vice brigadiere era, per lui figlio di contadini, un valore aggiunto. Un grande valore.
Il 18 novembre del 1945 era giunto in istituto allegro. Abbastanza allegro. Di un’allegria dolce, lievemente soffusa, che nascondeva le atrocità di una guerra appena conclusa, della quale si annusava ancora la polvere, si calpestava il sudore e si doveva, in qualche modo, ricostruire senza avere un futuro delineato, senza avere nessuna certezza, ma avere un mestiere, per quanto mal pagato, era un buon incominciare.

Paolo Pittalis, il 18 novembre del 1945 andava ormai per i cinquantaquattro anni, mancavano infatti solo pochi mesi a gennaio e mancavano anche pochi anni alla pensione. Era appuntato, un grado che non si sceglieva ma che si raggiungeva con l’età.
Non amava le responsabilità. Era un buon soldato, sempre attento agli ordini, disciplinato, meticoloso, rispettoso. Qualità che allora tempravano gli uomini, che erano eufemismi per colorare la patria, il rispetto, l’orgoglio. Paolo Pittalis aveva l’orgoglio dipinto nelle viscere della sua storia, era un soldato.

Giovanni Bacchiddu era l’icona di questo secolo, nato appunto ai primi del 1900, aveva 45 anni compiuti e svolgeva il suo compito con la tranquillità dell’esperienza, dell’aver visto e vivisezionato tante galere e troppi detenuti.

Il 18 novembre del 1945 la città di Alghero aveva chiuso i battenti molto presto. A sole calato tutti erano ormai a casa. L’inverno in questa città non era un Generale, ma riusciva a pungere ugualmente e nell’immediato dopoguerra gli spifferi dell’inverno percorrevano qualsiasi abitazione.
Anche in carcere faceva freddo. I detenuti non stavano fermi a lungo. Camminavano. Come gli agenti. Si camminava sempre perché il freddo non si sentisse, non entrasse a bussare dentro un bagno penale umido, scuro, triste, dove la notte c’era un silenzio assordante che non veniva più reciso dalle sirene che annunciavano aerei nemici.
La guerra era finita, si cominciava a manipolare una pace ancora incerta, ancora fredda, ma che tutti cercavano e tutti speravano arrivasse.
Il 18 novembre del 1945 la notte cominciò a dipingere nuovi colori che ricordavano la guerra, quella guerra appena scartata, quella guerra appena conclusa, quell’odore acre di guerra, di sudore e di sangue che riempiva ancora le narici di tutti.

Cosa accadde veramente quella notte dimenticata e da dimenticare?Non lo sappiamo con assoluta certezza, anche perché sono scomparsi tutti i protagonisti. C’è la storia. Piccoli frammenti legati a rapporti scritti dal direttore del carcere Ugo Costa e dai processi verbali di descrizione e sezione di cadavere effettuati il 19 novembre 1945 alle ore 10.30 dal Dr. Manunta Antonio, Giudice Istruttore, e con l’intervento del Procuratore del Regno, Dr. Dettori, Cavalier Ufficiale Armando. I Giudici per le operazioni peritali si avvarranno dei medici Dr. Stefano Ballero e Dr. Antonio Silanos.

Il carcere di Alghero, nel 1945, era una struttura completamente diversa da quella attuale e il porticato antistante il grande cortile era chiuso e bloccato da dei cancelli che oggi non esistono più. Le sezioni venivano chiamate “divisioni” e si trovavano sia a pianterreno che al primo piano dell’ala ovest, quella che oggi ospita alcune sezioni, l’infermeria e l’area trattamentale.
Il carcere di Alghero, nel 1945 era un bagno penale tra i più duri e difficili, dove occorreva la massima attenzione.

Alle 3.40 del mattino del 18 novembre 1945 il vice Brigadiere Ettore Scalas insieme agli agenti Pittalis, Gambino e l’allievo Moi, dopo aver effettuato la visita alle divisioni 1, 2 e 3 si trattengono per qualche minuto nell’ufficio dei sottocapi, posto alla fine del chiostro, a piano terra. Fa freddo e decidono di confezionarsi delle sigarette. Devono salire ai piani.
Il vice Brigadiere Scalas non si sente molto bene: probabilmente un principio di influenza, qualche linea di febbre. Ordina all’agente Pittalis e all’allievo Moi di cominciare la visita.
Il vice Brigadiere rimane solo all’interno dell’ufficio dei sottocapi e sente il rumore degli scarponi di ordinanza che lentamente si allontanano verso i piani. Fa sempre molto freddo e Scalas fuma per riscaldarsi almeno le mani.
Sono le 3.43 del mattino quando l’agente Toffanello accompagna il vice Brigadiere Scalas sino al cancello d’ingresso della sezione “Piani”.

Sono le 3.43 e qualche spicciolo di secondo quando apre il cancello di ingresso, aspetta che passi il vice Brigadiere, lo vede che si dirige verso la sezione e chiude il cancello per fare rientro al primo cancello, quello vicino all’ufficio dei sottocapi.

Sono le 3.44 quando vede il vice Brigadiere Scalas affacciarsi al secondo cancello e urlare di dare l’allarme in caserma. Insieme all’ordine secco del suo superiore si accompagnano urla concitate.
Grave, qualcosa di grave accade.
Toffanello corre verso la caserma per svegliare gli agenti che, a quei tempi, erano tutti “accasermati” e solo pochissimi, quelli residenti in città, lasciavano la notte il carcere di S. Michele.
Cosa era successo ai piani?
Non lo sappiamo con certezza. I due agenti, lasciato il vice brigadiere nell’ufficio dei sottocapi si recano presso i piani dove, con l’agente Soro Salvatore, di servizio in quella sezione, aprivano la porta ed il cancello del camerotto numero uno per effettuare l’ispezione. L’ispezione a quei tempi era effettuata sempre con tre agenti: due entravano nella stanza, contavano i detenuti e controllavano le sbarre, il terzo agente chiudeva il cancello per ragioni di sicurezza. Conclusa l’ispezione l’agente esterno riapriva il cancello per richiuderlo subito dopo aver fatto passare i due colleghi. Era la prassi. Di tutte le notti. Di tutti gli Istituti.

Il 18 novembre del 1945, alle ore 3.42 l’agente Pittalis e l’agente Soro entravano nel camerotto, mentre l’allievo Moi, più inesperto, doveva chiudere il cancello.
Qualcosa non funziona. Qualcosa blocca il normale avvicendamento delle cose.
Aspettavano. I detenuti probabilmente aspettavano l’ispezione. Sapevano che dovevano essere veloci. Sei. Sei ergastolani sanno essere sicuramente molto veloci quando non hanno nulla da perdere, nulla su cui scommettere se non nel tentativo di una fuga.
Aspettavano.
Vestiti.
Apparentemente addormentati con le coperte addosso ma, appena i due agenti entrano nella camera, i sei si muovono velocemente, fulmineamente: due si avventano su Moi che non riesce a chiudere il cancello ed altri quattro sugli agenti all’interno. Moi probabilmente rimane come stordito, non si attendeva un attacco, era probabilmente “rilassato” e viene scaraventato per terra. Uno degli ergastolani che si occupava di Moi era armato di coltello e cercava di colpirlo.
Questo, lo spettacolo che probabilmente (come immagina anche il direttore nella stesura del rapporto alle autorità) il Vice Brigadiere Scalas si trova davanti quando arriva davanti alla cella.
Un brutto spettacolo.
L’agente Moi si difende. È bravo, forte, giovane. Si divincola, riesce ad impossessarsi di uno dei coltelli e riesce a colpire sul fianco un detenuto. Sono fasi concitate. Moi perde la chiave. Gli avversari gli sono intorno. La situazione è grave. Molto grave. Si aggiunge un terzo aggressore: il detenuto Cosimo Sedda. Trambusto, urla, sudore che si raggruma. Moi è ferito, ma risponde, fermamente, eroicamente.
Qualcuno arriva. È l’agente Giovanni Becchiddu che subito tenta di fermare i detenuti. Moi ormai è fuori combattimento. Il dolore della ferita è lancinante. Si guarda intorno. È un attimo, quegli attimi che non servono a pensare e neppure a respirare ma a sopravvivere sì. Si alza, non guarda, non pensa, non respira: fugge. C’è una scaletta di legno che porta al secondo piano. La raggiunge. Sale velocemente e si nasconde dentro un fetido gabinetto.
Riflette. Per un attimo. Rivede la scena, l’agente Becchiddu che arriva, che si agita, che lo aiuta, che lotta, ma rivede anche gli agenti Soro e Pittalis che vengono spinti fuori con forza, con cattiveria. Vede sangue, molto sangue. L’ultima immagine è legata ai corpi dei suoi colleghi che si accasciano al suolo, senza produrre nessun movimento.
Niente.
Il vice Brigadiere Scalas con l’allievo Carboni stanno per arrivare. Corrono. Capiscono che la situazione è grave. Molto grave. Scalas ordina a Carboni di aprire il cancello superiore. Entrano entrambi richiudendosi il cancello alle spalle. Vanno verso le urla, i rumori. Il detenuto Sedda urla forte, incattivito dal dolore procurato dalla ferita dell’agente Moi: “Vattene Scalas, non ti avvicinare, vi ammazziamo, vi ammazziamo tutti”.
Scalas ascolta ma decide di non sentire. Scalas è un vice brigadiere di questo regno che sta per abdicare, ma l’Italia è sempre la sua patria. Non si cancella l’amore per la patria, non si cancella l’onore e l’orgoglio. I due militari si avvicinano alla scaletta di legno. Carboni scende per primo. Quando arriva è colpito con inaudita violenza da un asse di legno che lo stordisce, ma non lo uccide. La mira è, in qualche modo, sbagliata. Doveva morire Carboni, ma riesce a deviare il colpo, ad avere un momento per pensare e vedere il collega Bacchiddu ormai in agonia: solo contro dodici persone.
Risale la scala il giovane Carboni e tenta di rifugiarsi nell’unico luogo sicuro: il piccolo gabinetto. È chiuso. Non si apre. Tenta di scardinare la porta, ma è chiusa a chiave. All’interno è nascosto l’allievo Moi.
La mattanza è cominciata. Ha un colore denso il sangue che si coagula. Un colore amico. Carboni vede il vice brigadiere Scalas che tenta di aiutare il povero agente Becchiddu, ma non ci riesce, non ci riesce, sono tanti, sono troppi. Sangue, sangue amico che si dipana vicino agli scalini. Ha un odore marcio quel sangue, perché non cammina più dentro le vene.
Dalla caserma arrivano di corsa gli agenti Ugo Ceridi e Otello Cinelli.Ceridi, appena varcato il vano del cancello, viene colpito dal martello che serviva per battere i muri e che i detenuti avevano sicuramente sequestrato agli agenti. Cade. Cade Ceridi, senza neppure riuscire a vedere fotogrammi dell’orrore.
Ma ha la forza di aggrapparsi alla disperazione. Si rialza, barcolla, viene colpito da una trave, continua a lottare, si divincola, urla, non può finire così, non deve finire così dentro questo sangue che si allarga, che diventa anche suo. Urla Ceridi, urla forte ma è urlo che lentamente si appiattisce e scompare.
Cade. Cade Ceridi. Un urlo smorzato e un ultimo sguardo verso l’amico e collega Cinelli.
Cinelli arretra. Capisce che è dentro la mattanza, sente l’odore di quel sangue, sangue amico e fugge. Cerca aiuto, velocemente, senza troppe parole, senza spiegazioni incontrando il Brigadiere Secchi ed altri agenti urla senza quasi respirare che sotto è una mattanza, che l’odore del sangue è forte, troppo forte, che è sangue di agenti e che occorre armarsi.
La fuga. I detenuti dentro quel sangue che si coagula cominciano a fuggire. Non tutti. Quattro di loro che non avevano partecipato e avevano chiuso occhi e bocca perché l’orrore era grande, rimangono dentro il camerotto, sopra i loro letti, a respirare piano. In silenzio.

Gli altri fuggono. Perché è rimasta la loro unica speranza. Devono fuggire dopo che hanno costruito questa atroce commedia. Fuggono. Ma Sedda non riesce. La ferita è lacerante. Prova, cade. Riprova. Ricade. Ormai è un fagotto che non produce nessun rumore.
La fuga. Veloce, senza ripensamenti. Dalla camera aprono il cancello, attraversano di corsa il cortile, aprono la porta del laboratorio per la lavorazione del crine, si arrampicano velocemente sul tetto e si dirigono verso est. Superano il muro di divisione e raggiungono quello di cinta nella parte dove questo è più basso e si buttano nel vuoto. La sentinella UgoCavilli corre, urla, ma i detenuti non sentono. Spara ma il detenuto Vito Orrù si avvicina minacciandolo di smettere. Cavilli ha paura, molta paura, non sa della mattanza che è avvenuta all’interno ma conosce gli occhi di Vito Orrù che continua ad avvicinarsi. L’arma si inceppa. Cavilli ha paura, molta paura. Orrù avanza. È rimasta la baionetta, solo la baionetta. Cavilli ha paura, molta paura ma la usa più come una mazza che come fendente. Ma è sufficiente. I tre colpi in testa sferrati all’ergastolano bastano per stordirlo e per consegnarlo alle altre sentinelle che, nel mentre, erano arrivate sul suo lato.
Finito.
Silenzio. L’ultimo fotogramma del film.

Tutti allora andarono a registrare l’orrore, mentre il direttore tentava disperatamente di chiedere rinforzi alla Polizia e ai carabinieri del regno ma i rinforzi non c’erano, non arrivavano. Non vi erano uomini disponibili.
Dopo l’allarme di Cinelli nessuno si era avvicinato al luogo del massacro. Tutti avevano paura.
Il Direttore, Ugo Costa, si reca d’urgenza dai Carabinieri, insistendo con il piantone affinché avvisasse i superiori. Un agente contemporaneamente chiamava il sanitario e il ragioniere capo.
Si riesce a reperire una decina di uomini armati che, con la pesantezza nel cuore, si avviano verso i piani. Con le armi in pugno aprono il cancello e, nella penombra, in un buio quasi irreale, alimentato dalla luce di una piccola lampada a petrolio, quattro corpi esamini, sangue, pezzi di tavola, un tavolinetto rovesciato, cocci di vasi. L’orrore. Che non lascia spazio, che fa chiudere gli occhi, che consegna alla memoria ritagli di piccoli e insignificanti pensieri. L’orrore. Che non restituisce sospiri, non muove nessun corpo e nessun ostacolo. L’orrore che sono i corpi di agenti che hanno lottato, che hanno tentato, che hanno provato e sono fermi, immobili, statici.

I funerali delle vittime furono imponentissimi per la partecipazione di quasi tutta la città e delle varie rappresentanze di tutti i corpi armati di stanza ad Alghero. La regia aeronautica fornì l’automezzo e la messa fu officiata dal Vescovo con l’intero capitolo.
Da tutti gli stabilimenti della Sardegna lettere e telegrammi di accorate condoglianze.
Oggi, quando si attraversa l’atrio del nostro Dipartimento ci si sofferma a volte su un lungo elenco di piccoli e grandi eroi che hanno sacrificato la loro vita per servire fino in fondo lo Stato. Il lungo e triste elenco comincia proprio con questi piccoli eroi di Alghero, che hanno conosciuto la morte in servizio mentre l’Italia cominciava ad uscire, tristemente, dalla guerra.
Oggi, quando attraversiamo l’atrio del nostro Dipartimento, leggendo questi primi nomi dell’eccidio nel carcere di Alghero, ci sentiremo più orgogliosi di appartenere ad uno Stato che ha costruito la sua storia insieme a queste persone e, soprattutto, grazie anche a queste persone.

Rapporto del Direttore Ugo Costa

A Ministero Giustizia Direzione Generale Istituti Prevenzione e Pena Roma et Procura del regno presso il Tribunale Civile Penale Sassari
“Ore 4,10 circa di oggi diciotto novembre mentre agenti custodia eseguivano ispezione notturna sezione camerotti furono aggrediti da ergastolani ristretti prima cella in numero di sei armati coltelli occasionali, dopo viva colluttazione cui intervenivano altri sei ergastolani nel frattempo liberati seconda cella, venivano uccisi in numero quattro e feriti in due gravemente, tra cui allievo. Sei ergastolani, compiuto misfatto, riuscivano evadere usando chiavi tolte agenti uccisi et scalando tettoia crine e cinta nostante fatti segno fuoco agente sentinella. In colluttazione furono feriti dai compagni due fuggitivi, altri quattro rinserravano loro camerotto.

Nominativi agenti deceduti: Vice Brigadiere Scalas Ettore, Guardia sceltaBacchiddu Giovanni, Guardia scelta Pittalis Paolo, Guardia scelta Soro Salvatore,

Nominativi agenti feriti: Guardia Caridi Ugo, Allievo Moi Giulio punto,

Nominativi detenuti evasi: Farina Pasquale fu GiovanniFarina Giovanni fu Giovanni, Granello Antello di EliaSatgia Giuseppe fu PietroUleri Nicolò fu Francesco, Pili Antonio di Luigi. 

Nominativi detenuti feriti: Orrù Vito fu GiuseppeSedda Cosimo fu Giuseppe. Firmato Direttore Costa”

La guardia Cariddi Ugo morirà il giorno successivo, senza aver mai ripreso conoscenza.


La Sezione ANPPe di URI alla commemorazione dei caduti della rivolta del 1945

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